Un articolo su Bologna per il "Corriere Nazionale"


Confortevole e bastarda.
Alla Bologna dei fuori sede si arriva dalla provincia.

di Antonio Paolacci

dal "Corriere Nazionale" del 10/01/12

Non posso parlare di Bologna con la voce di chi ci è cresciuto. Chi va a vivere in un’altra città, anche se ci resta tanto a lungo, continuerà a sentirsi ospite sempre. Quelli come me l’hanno abitata in qualche modo di sponda, come palle da biliardo che raggiungono i birilli di rimbalzo. Di sponda ci arrivavamo poco più che diciottenni, con un borsone, uno zaino e l’iscrizione all’università. Di sponda la vivevamo, senza conoscere per anni nessun vero bolognese.
Eravamo studenti, categoria molto più dozzinale di quanto possa immaginare chi ne fa parte, non diversi dai ragazzi che la popolano adesso, arrivati dalle provincie di tutta Italia ma sputati gli uni agli altri. Diversi dai bolognesi, gli studenti qui si riconosco tra loro come italiani all’estero e, come italiani all’estero, tendono a fare gruppo, a isolarsi dal contesto per criticarlo e ridacchiare. Anzitutto, imparano la parlata siciliana, quella pugliese, la cadenza veneta, perché questo è un crocevia, un punto di convergenza di facce e inflessioni, delle attese di una generazione dopo l’altra.
Noi eravamo ragazzi di vent’anni che scappavano dalla ristrettezza d’idee delle loro microcomunità per arrivare nel cuore dell’esperienza comune, a fare a pugni con il nostro futuro. Correvamo in via Paolo Fabbri, al numero 43, appena rotolati giù dal treno: non disfacevamo nemmeno i bagagli, lanciavamo i borsoni sui letti in affitto e correvamo a citofonare a Guccini. Perché, si diceva, certe volte lui offriva il caffè agli studenti, offriva caffè in quell’appartamento dove, si diceva, c’erano tavole originali di Andrea Pazienza incorniciate e appese ai muri. E correvamo in via Clavature, a fissare il portone che era stato l’ingresso della Traumfabrik per dirci in qualche modo che c’eravamo noi, adesso, che ora toccava a noi. Eravamo studenti di cinema, di teatro, di letteratura ed essere qui era magnifico. Era un’immersione nella contemporaneità e un viaggio a ritroso nei secoli. Più che una città, era una geografia di angoli in cui era esplosa la Storia, un’architettura di portici e torri e impiantiti su cui avevano camminato i nostri eroi.
Eppure la odiavamo, Bologna. Era forse la città più civile e tollerante d’Italia, ma noi non la vedevamo così. Nel giro di pochi mesi imparavamo a odiarla per quel modo meschino che aveva di succhiarci soldi e disprezzarci allo stesso tempo. Città di commercianti sanguisughe, dicevamo. Città di affittacamere fanatici. Loro odiavano noi e noi odiavamo loro, il che creava due schieramenti compatti: si sa che niente unisce le persone quanto l’odio. Quello che poi si sarebbe chiamato degrado – e che metteva a dura prova la tolleranza bolognese – era, per alcuni di noi, una precisa presa di posizione: sporcavamo e facevamo baccano perché non ci sentivamo per niente accolti come la città millantava di saper fare. Dormivamo in cinque in un monolocale al primo piano di via San Vitale, un buco lercio che pagavamo fior di quattrini perché se non eri bolognese e avevi vent’anni, eri carne da macello. Guadagnavamo quasi niente, in nero, servendo ai tavoli o distribuendo volantini. Rinunciavamo a entrare nei bar anche solo per un caffè, sapendo che era meglio farselo a casa, che costava troppo, che entrare significava beccarsi occhiate di traverso dal barista.

Con lo sguardo a trecentosessanta gradi che mi illudo di avere oggi, posso dire che capisco anche i bolognesi che in questi anni hanno perso la pazienza, sfidati senza motivo, minacciati da quattro sbarbatelli provinciali che il più delle volte bighellonano gonfi di alcol e droghe come se questo possa renderli artisti. Oggi, adesso, mentre scrivo seduto al tavolino di un bar in centro, mi rendo conto di quante volte ho cambiato punto di vista su questa città. No: di quanti diversi e complessi punti di vista io abbia. Le stesse tinte dei muri e delle strade, i rumori, gli odori sono pura contraddizione: sgradevoli e accoglienti, deprimenti eppure passionali. Il suono del suo nome la rappresenta alla perfezione: nel riempire la bocca comunica pienezza, orgoglio, floridezza, ma anche tracotanza, vanagloria, livore. Bo-lo-gna risuona nel petto e rimbomba, cattiva e gentile, confortevole e bastarda.
Seduto a questo tavolino, circondato da studenti con i libri nelle tracolle, mi torna in mente che a Bologna ho scoperto la grande letteratura contemporanea. Mi torna in mente Don DeLillo, che mi folgorava una decina d’anni fa, in quel buco di monolocale al primo piano, riuscendo a cambiare in qualche modo la mia visione della scrittura. Mi torna in mente una sua frase che ho cerchiato a matita nella mia edizione di Rumore bianco datata 1999: «abbiamo bisogno delle catastrofi», diceva. E mi domando che genere di libri avrei letto, se fossi rimasto al paesino o se fossi andato a studiare a Salerno, a Milano, a Urbino. Credo anch’io, come immagino voi, che questi anni abbiano prodotto una quantità tale di immondizia comunicativa da far dimenticare, semplicemente, cosa siano davvero la letteratura e l’arte. Però Bologna mi ha insegnato anche questo, per quanto ingenuo possa sembrarvi: che le opere migliori sono come gli affetti più importanti, inevitabili e necessarie, e sempre capaci di durare. Ventenne rabbioso e squattrinato, me ne stavo sul letto, le tapparelle chiuse, e leggevo e leggevo, con uno stereo scassato che suonava i C.S.I. o i Nirvana. I miei interessi si muovevano in maniera identica a quelli di centinaia di coetanei rintanati in buchi analoghi in giro per la città. Come ognuno di loro mi sentivo solo, benché sempre circondato da persone analogamente sole, prede di quella solitudine astratta che David Foster Wallace avrebbe chiamato «solitudine esistenziale». Volevo scrivere. Volevo infischiarmene delle chiacchiere idiote e scrivere. Volevo frequentare solo gente consapevole e, tra tutte le città in cui avrei potuto farlo, ero certo di essere in quella giusta.

Intanto, da alcuni anni, la mitologia cittadina ruota intorno all’idea del cambiamento. È cambiata, dicono i salumieri. Troppo cambiata, mormorano i tassisti imprecando in mezzo al traffico. Non parlano soltanto del suo affollamento – del fatto che sia una piccola città incapace di contenere la gente di fuori che la riempie – è che si è adeguata, sostengono alcuni: a un certo punto ha deciso di conformarsi al resto del Paese, di vestire allo stesso modo, di farsi trascinare, di prendersela con gli stranieri. Da baluardo della civiltà è diventata culturalmente piatta, conforme alla mediocrità generale. A livello apparente è pure vero. A un livello più profondo, però, il primo posto da cui capire cosa sia successo all’Italia negli ultimi decenni è ancora una volta Bologna. Colpita, dilaniata, ferita a ripetizione, questa città ha voglia di essere lasciata in pace, mentre ancora lecca le proprie cicatrici in forma di spacchi nei muri, lastre con elenchi di vittime, fori di pallottole sottovetro, rottami ricomposti. C’è stata una guerra dopo la Guerra, qui, e se Bologna l’ha persa lo ha fatto con dignità. Senza dignità è semmai chi ha vinto, chi ha preso il potere anche qui come nel resto del Paese. Sono palazzinari, furbetti, mafiosi e pseudomafiosi da quattro soldi. Ma la gente che abita Bologna ha ancora la sua faccia, e se è vero che incontrerete ragazzini ignari, è anche vero che col tempo potrete vederli crescere e indossare le maschere dei loro genitori, che sono facce disincantate, espressioni mature e consapevoli. Da un momento all’altro si può saltare in aria, dicono i loro occhi. State attenti: da un momento all’altro varie forme di potere possono farvi molto male, fregandosene della vostra eventuale innocenza.

Ora io ho trentasette anni, metà dei quali vissuti in questa città, e so che siamo cresciuti, noi che cercavamo alternative al pensiero gretto e piccolo borghese, convinti che a Bologna avremmo inventato modi diversi di diventare noi stessi. Siamo cresciuti ma non possiamo liberarci da quel nocciolo duro alla base delle nostre idee. Ho visto l’Italia migliore, a Bologna, le menti più sveglie che possiate immaginare, fuggire dal conformismo dei loro paesotti in cerca di qualcosa di autentico e vitale. Certo, molti si sono persi nell’autoreferenzialità, nell’emulazione di miti compresi relativamente. Si sono impantanati nell’ossessione di affermarsi come singoli, gareggiando con gli altri. Molti sono diventati arroganti e penosi nell’istante in cui hanno dimenticato che sempre esisteranno individui migliori e peggiori di loro, e che preoccuparsene porta soltanto a varie forme di patologia. Ma non tutti. All’epoca pensavo che, come gli artisti che tanto ammiravamo, anche noi saremmo diventati un movimento o qualcosa del genere. Adesso so che in qualche modo lo siamo, almeno alcuni, ognuno per sé restando lontano da una realtà in cui l’economia è riuscita a mercificare anche l’arte e la cultura.

A Bologna predomina il color mattone nelle sue varie sfumature, dal giallognolo al rossastro. Esteticamente non l’ho mai apprezzata. È scura, con quel cielo invernale bianco uniforme cadaverico e i portici che tolgono luce. Se hai vent’anni e sei cresciuto nel sole e a due passi dal mare, ti senti calato per punizione in una specie di buca umida e caliginosa. La città ti costringe a camminare a testa bassa come un detenuto, assillato da malinconiche questioni adolescenziali, concentrato su piccolezze fino a smarrire la visione d’insieme. A lungo andare inizi a chiederti per quale colpa stai scontando la pena e cadi in depressione, immaginando scheletri incappucciati in attesa di te sul pianerottolo. Viene un giorno in cui di colpo scopri di non avere più nessuna certezza, che non sai più niente, che non hai nessuna verità a cui aggrapparti. Può essere molto dura, ma poi capisci che demolire ogni convincimento preconfezionato è in sé un sistema praticabile, necessario per crescere sul serio.
Mentre scrivo, ancora seduto al tavolino del bar, ho intorno le decorazioni natalizie. La gente cammina avvolta nelle sciarpe, guarda le vetrine e non compra niente, per via della crisi o della paura della crisi. Decido che per finire l’articolo devo farmi un giro, controllare la città. Chiudo il taccuino e vado alla cassa. La ragazza che prende i soldi ha negli occhi il gonfiore di una notte di studio, una macchia d’evidenziatore sul dorso della mano, un piercing al sopracciglio e la stanchezza di chi ha paura di perdere tempo. Dopo, eccomi su via Rizzoli. Ci sono delle nuove strisce pedonali all’altezza del recente negozio della Apple, grande e affollato. Osservo la vetrina di una grossa libreria di catena, una di quelle che anche qui come dappertutto hanno fatto chiudere i librai indipendenti. La vetrina è zeppa di copertine colorate e invocazioni all’acquisto di romanzi che non leggerei mai. Guardo le due torri e mi chiedo se avrei dovuto citarle nell’articolo, seguire la regola hitchcockiana secondo cui, quando si ambienta una storia in una città, bisogna mostrare i suoi scorci più famosi. Ma non sto scrivendo un film hollywoodiano e passo oltre.

[Bologna, 14-15 dicembre 2011]