12/10/16

Celebrare nel nostro piccolo un artista

Nel 1964 il Nobel sarebbe andato a Sartre, che però lo rifiutò, dicendo che secondo lui si poteva giudicare il valore di un autore solo dopo la sua morte.
Il principio alla base del rifiuto di Sartre è che solo la morte rende chiara la totalità dell'opera di un autore, perché la chiude in una forma definitiva, che cioè non può più cambiare (evolversi o involversi).
È un po' come dire che dobbiamo arrivare al finale di un libro, per decidere se merita un premio oppure no.
Quando muore un artista, sentiamo l'esigenza di esprimerci in qualche modo, proprio per questo motivo: la morte rende definitivo ciò che ha fatto, ovvero lo rende finito, concluso, e noi avvertiamo un bisogno analogo a quello che sentiamo quando finiamo di leggere un libro e traiamo una conclusione, specie se il libro ci è piaciuto.

È perciò del tutto umano e, volendo, anche abbastanza sano culturalmente, celebrare nel nostro piccolo un artista, quando la sua vita finisce.
L'opera di Dario Fo, nel secolo scorso, è stata importantissima e quindi, adesso che è morto, noi lo salutiamo come si fa con i vecchi di una tribù: anche con un gesto personale sui social, perché no, che messo insieme ad altri diventa una specie di atto rituale collettivo, un piccolo gesto che compone un piccolo rito che serve a evitare il silenzio.

Con buona pace di alcuni opinionisti contemporanei, Dario Fo era nei manuali di storia del teatro prima ancora di compiere 60 anni. In Italia non lo sapeva quasi nessuno, fino al Nobel, quando in effetti ha continuato a non saperlo quasi nessuno, in Italia, ma era così.
D'altra parte la TV ha continuato (anche dopo il Nobel) a mostrarlo perlopiù solo da vecchio, mi pare. Cioè non so se negli ultimi anni abbiano mai mandato in onda Mistero Buffo o Morte accidentale di un anarchico in orari decenti o su canali seguiti dalla massa, ma non credo.

E, con la vecchiaia, Fo ha detto e fatto cose non teatrali che lo hanno mostrato al pubblico televisivo in modo assai riduttivo, rendendo il "libro" della sua storia personale un po' deludente sul finale.

Ma il "libro" della sua storia artistica resta un capolavoro, cosa che potreste negare solo se sapeste cos'è stato il suo teatro tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, e comunque mettendovi contro la gran parte degli studiosi di tutto il mondo, per i quali (capiamoci) Albertazzi non è minimamente importante, Benigni è una scoreggia nel vento, e Dario Fo è tra i grandi del Novecento.

La sua opera è una lezione sulla falsificazione, sulla creazione di linguaggi e di immaginari, sul gioco meschino del potere e sul grande potere del gioco.
Posizioniamo i piedi a papera e facciamogli un inchino.