24/01/16

Pregiudizi

Mio padre è un uomo del sud. Tra le altre caratteristiche ha un accento inconfondibile, per quanto il suo italiano sia perfetto. È nato in un paesino della provincia di Salerno, e lì vive tuttora, a più di ottant’anni.
Da ragazzino ha visto l’arrivo degli americani, soldati che porgevano tavolette di cioccolata, a lui che a stento aveva un paio di scarpe. Tra questi soldati c’erano molti afroamericani, i primi neri che lui abbia mai visto. Dice che ricorda i loro denti bianchissimi quando sorridevano. Dice che a scuola, durante la guerra, gli avevano insegnato che quelli si chiamavano negri ed erano animali. E lui ci aveva creduto, fino a quando non li aveva visti sorridere e porgere cioccolata.
Dopo la guerra ha studiato al liceo. Poi è andato a Napoli per l’università. Si è laureato in chimica negli anni Sessanta. All’università frequentava i corsi di matematica di Caccioppoli. Era l’università di Napoli, quella, ed erano anni in cui all’università di Napoli se sbagliavi un congiuntivo a un esame di chimica ti sbattevano fuori.
Mio padre non ha mai sbagliato un congiuntivo e si è laureato in chimica.
Tornato al paese, ha aperto un suo laboratorio di analisi e iniziato a insegnare matematica alle superiori. In alcuni decenni di lavoro, ha formato persone, ha migliorato la salute di parecchia gente e ha salvato anche qualche vita.

Quando era giovane, credo alla fine degli anni Sessanta, un giorno è entrato in un negozio in Veneto, dove era andato per far visita a mio zio che viveva lì. Voleva comprare una lampada che aveva visto in vetrina. Conosceva il greco antico e il latino, e parlava in perfetto italiano con questo accento che dicevo, questo accento del sud. In italiano ha chiesto il prezzo della lampada e il commesso, nel sentire il suo accento, gli ha parlato in dialetto veneto stretto, insultandolo e indicandogli la porta.
O almeno, insultandolo forse, dice mio padre, perché francamente non si capiva un cazzo del dialetto di quell’idiota, dice mio padre, ma qualunque cosa quell’idiota stesse dicendo non era certo il prezzo della lampada, dice mio padre, credimi, dice, non era il prezzo, dice.

Era la prima volta che subiva una cosa del genere. Forse è stata anche l’ultima, questo non lo so, ma so che mi diceva che era stato brutto. Una cosa brutta, diceva, una cosa che fa incazzare in modo brutto. Anche perché lui, mio padre, era rimasto zitto. Non aveva reagito, e si rammaricava di questo. Si incolpava. Diceva che ’sta cosa gli era rimasta qui. «Qua», anzi, dice lui: «M’è rimasta qua». Il fatto di non aver detto niente, spaccato niente, nessuna lampada per esempio, nessuna lampada che pure aveva il diritto di comprare. Il fatto di essersi sentito piccolo, indifeso, meschino e in qualche modo in difetto.

Poi sono nato io, dico qualche anno dopo il fatto della lampada, negli anni Settanta, e così mio padre – da ragazzino senza scarpe durante la guerra – è diventato mio padre, il dottor Paolacci.
Tra le cose che mi ha insegnato ci sono il rispetto, la dignità, l’uso dei congiuntivi. E anche che cos’è un pregiudizio, mi ha insegnato, e mi ha insegnato ad averne paura, molta paura. Stai attento ai pregiudizi, mi diceva. Molto attento, anche a notarli, a farci caso perché alle volte sfuggono.
In effetti, se ci riflettete, il pregiudizio è ovunque, non riguarda soltanto i meridionali, gli stranieri, gli omosessuali. Ovunque siate, ovunque andiate, incontrerete pregiudizi che isolano le persone. Battute, allusioni, considerazioni su come siete fatti voi «di laggiù», per esempio. A volte sono anche complimenti, ma si basano comunque su un pregiudizio. Il pregiudizio è quella cosa che nasce da una scemenza bella e buona: l’idea (sbagliata) che un altro ha di voi senza conoscervi, per via del vostro ceto sociale, dei soldi che avete in banca, della vostra macchina, del taglio capelli, dei vestiti, del quartiere in cui vivete, e può annidarsi ovunque, nei posti di lavoro, nei settori più impensabili, nei salotti culturali, nelle università, perfino in voi adesso, voi che mi state leggendo supponendo cose su di me che non sapete.

Comunque, quando a diciott’anni sono partito da quello stesso paesino del sud per andare a vivere a Bologna, mio padre mi ha chiesto una cosa precisa: mi ha chiesto di non dimenticare mai da dove venivo. Mai, mi ha ripetuto. Mai. Perché i pregiudizi fanno anche questo, mi ha detto: ti fanno rinnegare chi sei, e a volte ti fanno vergognare, ecco cosa, e ti fanno vergognare per ragioni assurde, per motivi come il posto da cui vieni.

Ecco perché io ripeto sempre che sono un uomo del sud. Ovunque sia la mia residenza, resterò un uomo del sud. E lo dico sempre e lo dico forte, ma attenzione: non lo dico con orgoglio così come non lo dico con vergogna. Sono nato e cresciuto al sud e questo è quanto, gente. Non è una colpa né un merito. È un fatto che non significa un cazzo di per sé, che significa molto solo per me. Per voi, invece, non è una caratteristica significativa perché in effetti non implica un cazzo di niente. Se mi giudicate per questo è un problema vostro. Ed è un problema assai serio. Credetemi.

Mio padre per esempio, beh lui da bambino credeva che i neri fossero animali e si chiamassero negri. Credeva che gli omosessuali fossero pericolosi. Sbagliava, certo, ma non poteva fare altrimenti, mi diceva, perché così gli avevano insegnato a scuola e così diceva anche il prete, e gli insegnanti dicevano la verità e i preti parlavano per bocca di Dio, per quanto ne sapesse lui. E lui, mio padre, di omosessuali e neri non ne aveva mai visti, prima della fine della guerra.
Ma poi sì. Dopo, a un certo punto, li aveva incontrati. E aveva verificato che tutto quanto sapeva sul loro conto era un cumulo di cazzate micidiali.
E così aveva cambiato idea, mio padre, senza problemi, aveva cambiato idea di corsa, perché non è difficile cambiare opinione, mi diceva. Anzi, è facilissimo. Specie quando ti accorgi che quell’opinione che devi cambiare non è mai stata la tua.