26/05/14

Particolari in chiaro

Ecco il testo (scritto per l'occasione) che ho letto durante l'incontro Un giorno vi racconterò. Ricordo di Luigi Bernardi


Luigi Bernardi era un bastardo. Ve lo dico, ma tanto lo sapete anche voi. Ti faceva incazzare, brontolava di continuo, ti metteva in difficoltà. E poi odiava essere chiamato maestro ma ogni tanto faceva proprio come certi maestri zen, avete presente: ti tirava una randellata senza nessun motivo apparente. Tu eri lì, tranquillo a dire o fare qualcosa di normalissimo, e lui bam!, ti randellava. Era un bastardo, Luigi Bernardi, ed era facile dargli del bastardo se non riuscivi a capire che la randellata serviva a svegliarti, a farti uscire dai tuoi comodi percorsi mentali.

Immaginate la scena seguente. Siamo a Maniago, una sera di non so più che anno, per il premio Lama e trama. Alla fine delle premiazioni c’è questa cena con tutti i partecipanti. Gente di ogni età e di ogni parte d’Italia che ha scritto racconti pieni di squartamenti a mezzo coltelli da cucina. C’è questa tavolata con sette o otto persone sconosciute. Uno dei ragazzi, magro, ventenne, speranzoso, per farsi notare da Luigi inizia a parlare male di Faletti. (Fabio Volo non c’era ancora: erano gli anni in cui si parlava male di Giorgio Faletti).
E insomma: «Il successo di Faletti fa venire il voltastomaco», dice il ragazzo, e gli altri aspiranti scrittori seduti con noi gli danno ragione: «Faletti non sa scrivere», «Mi chiedo perché la gente compra i libri di Faletti». Eccetera.
Conoscono Luigi Bernardi come un burbero incazzoso, un intellettuale che dice le cose come stanno, per cui credo che tutti si aspettino di sentirlo d’accordo, pronto a tuonare contro Faletti, e chi lo legge, e chi lo pubblica. Ma Luigi zitto, non reagisce. Mangia. Inespressivo. Allora il ragazzo non resiste e lo chiama in causa: «Luigi», gli fa, «non sei d’accordo?».
Il Bernardi alza la testa dal piatto, fa un respiro e dice, serissimo: «Guarda. Non dovrei dirlo, ma la verità è che i libri di Faletti li ha scritti tutti Paolacci».

Per fortuna io riesco a trattenere la risata. È solo un attimo. Fossi scoppiato a ridere avrei rovinato la scena. Perché la cosa interessante di questa storia è che a quel punto è calato il gelo. C’erano sette o otto persone a quella tavola, e tutti negli ultimi dieci minuti avevano parlato male dei libri di Faletti, e tutti a quel punto hanno creduto per un attimo che il vero autore di quei libri fossi io, ovvero il giovane scrittore sconosciuto che collaborava con Bernardi.
In un colpo solo, Luigi aveva infilato tre o quattro randellate a ognuno di loro, e senza nemmeno essere in reale disaccordo con quanto dicevano. Solo dopo, solo quando hanno capito che era uno scherzo, sono sicuro che i più svegli di loro hanno riflettuto bene e hanno recepito il messaggio. Che era questo: è meglio non dare mai niente per scontato, prima di emettere un giudizio è bene considerare quanto si sa in merito a ciò che si giudica, e cosa si sa delle persone a cui si sta parlando.

Gianni Montieri, che ringrazio, ha voluto che questa serata prendesse il titolo da un mio pezzo dello scorso aprile, in cui dicevo che Luigi usava spesso la frase «Un giorno vi racconterò…» appunto per spiazzare chi esprimeva opinioni facili su cose che non conosceva a fondo. Più esattamente, scrivevo che questo era il suo modo per far capire ai meno informati che l’editoria è molto diversa da ciò che credono sia: «Un giorno vi racconterò come lavorano davvero quelli di [una nota casa editrice]», diceva. Oppure: «Un giorno vi racconterò come la pensa davvero [uno scrittore famoso]». Poi questo giorno non veniva mai, non raccontava niente alle persone di cui non si fidava, ma riusciva comunque a insinuare dubbi, che è poi il primo dovere del vero narratore.

Se vado indietro con la memoria e provo a ricordare in che modo è iniziata la nostra collaborazione, mi tornano in mente le facce di molta gente. Persone che si chiedevano da dove cavolo spuntassi io, questo tizio che a un certo punto il Bernardi aveva iniziato a coinvolgere in varie cose che faceva.
Se domandaste a me il perché di questa sua scelta, vi risponderei che a un certo punto abbiamo capito che ci intendevamo. Niente di più, ma soprattutto niente di meno: è una cosa rarissima e preziosa, nell’ambiente editoriale, trovare qualcuno con cui ti intendi davvero. So che molti di voi qui presenti stasera sanno di cosa sto parlando perché con Luigi hanno provato la stessa cosa: quella sensazione appagante di sentire che qualcuno è d’accordo con te su cose che la gran parte della gente non capisce nemmeno se gliele spieghi. Punti di vista sul mondo. Punti di vista sulla scrittura.
Però no, signori. Non siamo una ristretta cerchia di sfigati. Nossignore. Non siamo nemmeno una minoranza o quel mostro contemporaneo che alcuni chiamano Nicchia (scrittori di nicchia, libri di nicchia). Col cazzo. Per spiegarvi meglio, lasciatemi citare David Foster Wallace. Perché è anche di Wallace che stiamo parlando. E non del Wallace depresso, del Wallace suicida che ci ha lasciati orfani, ma di quello ottimista, quello che ci faceva sentire meno soli, quello che credeva nella letteratura e che usava la scrittura come occasione di incontro tra intelligenze.

Quando uscì in Italia l’intervista di Lipsky a Wallace, Luigi postò su Facebook un brano che io avevo sottolineato nella mia copia del libro tipo un’ora prima di vederlo sulla sua bacheca. (Ecco di cosa parliamo, quando parliamo di intesa.) Il brano era questo:

Gli scrittori hanno la licenza e anche la libertà di mettersi seduti da una parte… di mettersi seduti da una parte, stringere i pugni e rendersi mostruosamente consapevoli delle cose che in genere noi percepiamo solo fino a un certo punto. E se uno scrittore fa bene il suo lavoro, in pratica non fa altro che ricordare al lettore quanto è intelligente – il lettore, intendo. Cioè, gli apre gli occhi su qualcosa che il lettore sapeva già da prima. E la questione non è che lo scrittore ha maggiori capacità rispetto a una persona qualunque. È che lo scrittore è pronto, secondo me, a tagliarsi fuori, a isolarsi da certe cose e sviluppare… e pensare, tutto qui, pensare molto intensamente. Cosa che non tutti possono permettersi il lusso di fare.

Questo concetto, questo pensiero così semplicemente espresso da Wallace su quale sia in definitiva il lavoro dello scrittore, sfuggiva e sfugge alla gran parte delle persone in circolazione. I superficiali – e cioè quelli a cui stiamo concedendo sempre più spazio – sono quelli che vorrebbero essere scrittori senza mai mettersi in discussione, senza dover riflettere intensamente, per non correre il rischio di dover ammettere i propri errori di valutazione. Sono quelli che vorrebbero essere per genetica incapaci di sbagliare, in modo da poter giudicare tutto e tutti al volo, senza il bisogno di approfondire, di riflettere, di non dare mai niente per scontato.

Un paio di settimane fa, parlandone sul suo blog, Giampaolo Simi accennava al fatto che da qualche anno Luigi aveva smesso di essere ottimista. È vero. Verissimo: negli ultimi anni continuava a dire che in editoria tutto stava andando in malora. Lo raccontavo proprio in quel pezzo che ho scritto ad aprile. Eppure, come scriveva Simi, «vi posso assicurare che ha saputo essere una delle persone più ottimiste che abbia mai conosciuto». Ed è verissimo pure questo.
Anzi, in un certo senso io potrei garantirvi che Luigi Bernardi non è mai stato davvero pessimista. Lo era, e molto, per quanto riguarda lo stato e il futuro dell’editoria. Lo era su molte altre cose. Ma ricordo bene che tutte le volte in cui ero io a dire «È uno schifo, io smetto di scrivere, è tutto finito», quel bastardo rispondeva: «Non dire cazzate, Paolacci. Non è finito proprio niente».